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26/2 ritratto di Era e ritratto di un grande scrittore...

Da molti mesi ogni volta che mi smarrisco in un angolo privo di un barlume di senso ed ho bisogno di una scossa violenta per ricominciare a vivere, a respirare, vado a rileggere questa pagina che considero uno degli scritti più emozionanti che io abbia mai letto.

Non so perché io sia così legato alle emozioni, so cosa mi lega a quest'uomo, a questo scrittore meraviglioso e così terribilmente vero.

Ho avuto molti dubbi sul citare in toto questo capitolo del suo ultimo libro, poi ho pensato che condividere la struggente bellezza di una scrittura così viva e poetica come la sua fosse più che un diritto un dovere estetico.

Quando fatico a trovare un senso prendo questo libro e ne leggo un capitolo, sperando non finisca mai.

Vi prego quindi, fatevi un regalo ed acquistatene due copie; una per voi ed una per una persona a cui volete davvero bene.

Questo grande umano, questo grande scrittore si chiama Diego Cugia ed il suo libro “Un’anima a 7 euro e 99” da cui cito questa che considero una delle mie letture più commoventi ed emozionanti di sempre.

Grazie Sig. Cugia...

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16 ottobre - Eri nata a Monza, in una villa reale dei cani, ultima, fragile cucciola di due campioni di bellezza brasiliani. La mamma non ti ritenne all’altezza dell’arduo compito di vivere. Eri la meno bella della nidiata, la più timida, l’ultima, sopraffatta dalla voracità prepotente di fratelli e sorelle. Di latte per te non ne avanzò mai una goccia. Un’altra voracità, quella dei tuoi allevatori, ti tenne in vita artificialmente. Crescesti in esilio dalla tua famiglia e fosti ultima anche per gli uomini. Troppo nervosa, troppo remissiva, nessuno ti acquistò. Ricevetti una tua fotografia, una specie di scarto fra ritratti di cani col pedigree. “E questa è Sara”, spiegava la lettera, “ha già sei mesi, ed è un po’ introversa e nevratile, ma tanto docile, l’ideale se ha bimbi piccoli”. Eri ritratta sulle scale di quella che sembrava una chiesetta di campagna. Sembravi la piccola mendicante di un romanzo di Dickens. L’unica a non guardare in macchina di quella galleria di impettiti rampolli a quattro zampe, dagli occhi altezzosi. Eri una piccola ombra fulva dallo sguardo altrove. “Sei proprio il cane di uno scrittore”, pensai, scelsi te. Con i bambini t’insegnammo a passeggiare senza guinzaglio. Il tuo scherzo preferito era correrci avanti per nasconderti subito dietro l’angolo. Il nostro contro-scherzo era quello di fermarci, interrompendo la passeggiata di botto. Passavano gravi secondi. In base ai tuoi calcoli canini saremmo già dovuti transitare da un pezzo. Così, dal timore che fossimo scomparsi per sempre, non resistevi, e il tuo musetto faceva capolino dall’angolo di strada, girandosi verso di noi con l’espressione sbigottita di una vecchietta alla quale un ragazzo ha appena gridato “A bella!”. Scoppiavamo a ridere e tu, felice, fuggivi fino all’incrocio successivo, a proporci un meritato bis. Il tuo problematico rapporto con gli autobus rimarrà per sempre un mistero. Non facevi una piega, sia che in strada passassero motociclette rombanti, sia una colonna di tifosi romanisti o di corazzieri a cavallo. Se pure fosse atterrato un aeroplano non l’avresti degnato di uno sguardo. Ma un autobus era per te quello che per me bambino fu Boris Karloff ne “La mummia”. Quegli stridii ti mettevano le ali. Scappavi a razzo, con una specie di grido da donna con le doglie, e bisognava cercarti per ore in tutto il quartiere. Hai atteso tutta la vita che questa tastiera tacesse. Rizzavi le orecchie fra una frase e l’altra, si ripiegavano mogie alla ripresa del ticchettio. Ti devo diecimila passeggiate mancate, per qualche pagina in più. Una volta, per un fatale equivoco, rimanesti tre giorni chiusa in casa, senza nulla da mangiare e da bere. Ti ritrovai dietro la porta, in fiduciosa attesa, la casa in ordine, neppure un cuscino per terra. Avevi solo sporcato in un angolino del balcone, senza abbaiare mai. Io non lo so se esiste un paradiso dei cani, lassù. So di certo che sei stata la mia martire. E quando, al tramonto, hai finalmente avuto un grande giardino, ti sei ritrovata a spartirlo con due cuccioloni voraci e prepotenti, e una pecora “dominante” che ti ha scippato la cuccia. Te ne sei andata a morire da sola, l’altra sera, in un angolo in disparte, lontano dagli uomini e dagli altri animali, regina in esilio da tutti. Ti abbiamo ritrovato così, occhi alla luna. Ogni volta che risentirò il guaito meccanico di una scavatrice, il mio cuore fuggirà veloce, dietro l’ultimo incrocio della mia strada. Ora sei dentro l’erba fiorita, e al tuo piccolo funerale eravamo in tre, io e i due “fratelli” che hanno oggi la stessa età, sette mesi, che avevi tu quando ti desti in dono alla mia vita. Si sono seduti accanto al piccolo cumulo di terra. Sono ancora lì. So che hanno capito. Sogno che una grande mano ti carezzi per sempre, Sara.

La piccola Era.

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