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Ecce homo

Qualche anno fa arrivai a Dachau. Da quella esperienza occasionale nacque una necessità di consapevolezza che mi spinto, qualche mese fa, verso Auschwitz. Sapevo che lì avrei ritrovato quel buio che ogni tanto torna nei miei incubi peggiori, ma sapevo che mi era inevitabile sprofondarci dentro nuovamente. Avevo deciso questa volta di usare le fotografia come compagna di viaggio in questo percorso, un modo per rendere, almeno in me stesso, la memoria più vibrante e duratura e cogliere insieme le mie reazioni emotive riflesse negli scatti. Terminato quello che considero un pellegrinaggio, ho provato un profondo disagio nei confronti di quelle immagini. Le trovavo inadeguate a raccontare in modo compiuto e preciso tutta quella violenza e soprattutto incapaci di rendere lo sgomento che avevo provato. Forse chiedevo troppo alla fotografia, sicuramente chiedevo troppo alla mia tecnica ed al mio linguaggio fotografico. Ciò che è rimasto è finito in un cassetto, come mi succede spesso. Oggi a distanza di mesi ho ripreso tutto in mano, compresi ricordi ed emozioni. Ora sono qui con una cinquantina di scatti davanti ed un dubbio pesantissimo: queste immagini rappresentano ancora qualcosa ? Possono da sole raccontare insieme il soggettivo e l’assoluto, le emozioni e la storia ? La risposta è che probabilmente hanno bisogno di essere sostenute dalla forza delle parole anche perchè gli occhi da soli possono non credere a ciò che si vede qui ad Auschwitz, meno ancora a Birkenau . È successo anche a me di avere dubitato. Possibile tutta questa empietá ? In questo girone infernale per morti viventi si ha la sensazione gelida e crudele di essere finiti in una vera e propria fabbrica dell’orrore. Un’industria perfetta ed allucinante concepita per cancellare umanità e generare dolore. Però le immagini da sole, almeno le mie, non bastano. Forse anche perchè spesso non vogliamo ascoltarle, presi come siamo dal rimuovere il male, i tanti stermini silenziosi che anche in questo preciso istante stanno cancellando brutalmente vite e storie nel moto perpetuo dell’”uomo carnefice”. Comunque credo sia necessario provarci, per dare voce alle vittime di allora e quelle di oggi. Dedico questo lavoro, sia pure il mio peggiore e più sofferto, a Giulia e Laura, le mie figlie, perché essendo giovani ed avendo ancora una vita davanti, ricordino e non abbandonino mai la forza critica del dubbio ed il bisogno di giustizia. Contano di più le storie delle parole, perché le storie hanno dentro le vite, le parole al massimo solo qualche buon proposito…

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