Ecce homo.
Il mio nome è Stanislao Prebka, polacco, 20 anni oggi. Oggi ho compiuto 20 anni. Ma non è stata una giornata di festa, solo lavoro, duro, spietato, nessun sorriso, nessun abbraccio ed ora fatico persino ad addormentarmi. Sulle prime ho pensato fosse colpa dei morsi della fame che continuano a darmi il tormento, a vent’anni si ha sempre fame. In realtà però nel silenzio della camerata rotto solo dalla tosse insistente di Aaron e dai conati di vomito di qualcuno perso più in là nel buio, mi sono accorto che sono i miei pensieri a togliermi il sonno. Non è facile crederlo, lo so; in una camerata di Auschwitz chiunque si farebbe ipnotizzare dal tormento e dalle privazioni, tanto da far sembrare i pensieri, un lusso inadeguato. In realtà invece sono proprio i pensieri che finiscono per tormentarti più delle malattie e della fame perchè anche se fanno male arrivano; i corpi li incateni, le menti no. Così questi pensieri si accalcano disordinatamente nella mia mente, proprio ora, mentre vedo entrare la luce argentea della luna anche attraverso lo sporco del vetro della finestra. E penso che neppure le sbarre riescono a fermare la meraviglia e la magia di quella luce delicata, neppure il sordido squallore di questo luogo terribile. E allora perchè accontentarsi ? Quante volte ho visto il bicchiere mezzo vuoto e sono stato deriso. Ora che sto in questa camerata, in un campo di prigionia, paradossalmente non mi accontento più e vorrei avere tutto. Vorrei prima di tutto la bellezza, quella assoluta della luna, quella formidabile bellezza del mondo che sta fuori da questo pozzo di orrore. Poi vorrei prati, soli, fiori, cascate, cieli, mari, montagne, semplice, pura bellezza, ma nient’altro. Non vorrei cose, le cose stimolano la parte peggiore degli uomini. Vorrei un pò di giustizia, quella sì, ma non quella che si ottiene col sangue ed il frastuono delle armi , piuttosto quella silenziosa dei pesci o degli uccelli, delle profondità del mare e delle vastità dei cieli, dove giustizia e libertà si fondono in un ordine naturale che non spreca un solo briciolo di energia per l’egoismo e la malvagità. Non accontentarsi è per me oggi, qui, volere ancora vivere, mentre molti miei compagni di sventura vorrebbero morire. Perchè accontentarsi? Accontentandosi potrebbe andare bene anche essere qui, e sopravvivere. Io invece anche qui in catene, privato di tutto, della libertà, della mia stessa entità, della salute, del cibo, ho esigenze ed aspettative. Aspettative grandi , immense…non sogni però, quelli sono troppo lontani, anche perchè non prendo sonno. Intanto ho compiuto 20 anni oggi, qui, anche ad Auschwitz succede. Sono studente di filosofia all’università di Cracovia, entrato da qualche mese nella resistenza. Ho seguito il mio professore di filosofia , Ivan Demetski, perchè lo considero un uomo giusto, un intellettuale coerente. E’ stato lui a farmi aprire gli occhi su ciò che sta accadendo ora in Polonia ed in tutta l’Europa, così insieme siamo stati prelevati all’uscita dalla facoltà e rinchiusi qui. I nazisti dicono che questo è un campo di lavoro, scrivono sul cancello d’ingresso “il lavoro rende liberi” Liberi dicono. Il mio professore ha avuto da un amico della resistenza un paio di foto confuse dove si vedono delle donne senza vestiti correre verso un piccolo bosco di betulle. Il medico che le ha scattate furtivamente dice che erano state convinte a denudarsi per andare a lavarsi in un edificio poco distante. In realtà le ha viste entrare in una costruzione bassa, seminterrata, dalla quale però non sono più uscite. Noi abbiamo capito che qui si entra facilmente ma da qui difficilmente si esce vivi... Io ed il professore Demetski siamo riusciti a scambiarci un biglietto tramite un amico detenuto che i tedeschi usano come inserviente. Lui mi ha scritto “ Loro dicono che il lavoro rende liberi ma guardandomi attorno ricordo piuttosto il sommo Dante quando scrive ‘...lasciate ogni speranza voi che entrate’...e quella frase non stava scritta sul cancello di un campo di lavoro...”
