Ecce homo.

Il mio nome è Edna Gruenwald, ebrea tedesca, 24 anni. Sono ad Auschwitz da 7 mesi, mesi che sembrano una vita, un incubo dal quale spero ancora, ogni giorno, di fuggire svegliandomi. Vivo nel buio nel quale sono stata rinchiusa salendo su quel carro ferroviario a Monaco. Ricordo ogni singolo fotogramma di quell’ultimo giorno da persona viva. Le urla, le divise, i fucili, gli sguardi sprezzanti, le spinte, il latrato dei cani, lo smarrimento dell’impossibilità di comprendere. Era inverno e la neve scendeva così lentamente da rendere la scena irreale, quasi a volere rallentare il tempo. Un contrappasso dolente con quella cappa plumbea che ci schiacciava a terra. La neve era leggerezza, un candido miraggio da inseguire mentre vorticava ipnotica verso un altrove in cui rifugiarsi, aggrappandosi a quei fiocchi leggeri e delicati... Ovunque attorno invece c’era solo una pesantezza ruvida che odorava di odio. Erano giorni in cui il mondo sembrava sprofondato nel buio, eppure la neve, con quella sua leggerezza e quel candore, si ostinava a voler dare speranza a chi come noi stava intirizzito, in piedi, ammassato sulla banchina di una stazione di periferia. Tutto era buio, tetro, vischioso; eravamo a metà pomeriggio ma improvvisamente arrivò la notte quando ci ordinarono di salire sui vagoni. E quel buio ci inghiottì, calandoci in questo mondo di invisibili. Fu come essere catapultata in un utero rovesciato, una stregoneria capace di farci passare dalla vita all’inesistenza. Un viaggio è una pagina su cui la vita scrive storie, capitoli nuovi; per noi invece quello fu un colpo di spugna capace di cambiarci così tanto da renderci irriconoscibili persino a noi stessi, una volta giunti a destinazione. Da quel momento cambiò tutto, persino lo spazio intorno a noi. Qui pare creato per un unico scopo; controllare ed annientare la nostra identità e sterilizzare la mente di tutti noi, donne, uomini, vecchi e bambini. Lo spazio ha l’unico scopo di contenere più corpi possibile, numeri di matricola da disporre meticolosamente con maniacale puntiglio. Numeri da censire nelle estenuanti ed interminabili conte che scandiscono la vita del campo. Arrivi e presto ne comprendi la crudele utilità: farti sentire a tua volta un numero, una frazione di zero. Le conte diventano un incubo; possono durare ore, con qualsiasi clima, nelle condizioni più dure, sotto pioggia, neve o sole rovente . A volte cadenzate secondo lo schema del tempo che regge il campo, a volte improvvise ed impreviste. Nessuno di noi può muoversi o distogliere lo sguardo quando qualcuno viene punito per la ragione più futile, anche solo per essere caduto a terra per la fame o per l’orrore di fronte alle violenze subite da un tuo vicino, un compagno di camerata o peggio un parente. Basta poco per questo macabro rituale; due pali che sorreggono un binario ferroviario a cui appendere il malcapitato di turno spezzandogli spesso le braccia ; tutti devono assistere al loro infierire su quei corpi e quelle menti alla deriva, tutti devono capire ciò che li attende al minimo gesto di ribellione. La conta di un gruppo, botte, urla, insulti e di nuovo la conta di un altro gruppo ed avanti così per ore interminabili mentre il freddo ti trafigge la carne oppure il caldo ti toglie il respiro ed annebbia la vista. Eppure sono tedesca come loro, anzi ero tedesca, perché ora valgo, al massimo, quanto vale un numero prossimo allo zero.
