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Ecce homo

Mi chiamo Anatoliy Sokolov, 29 anni soldato dell’armata russa. Fa freddo, fa sempre freddo quando si lotta per non morire. Può essere estate, il sole può bruciare e rendere incandescente l’aria eppure tu senti freddo. Loro avanzavano così rapidamente da non lasciarci altro scampo che la fuga fra i boschi di betulle. I tedeschi sembravano invincibili, invulnerabili, persino immortali. Qualcuno a volte crede così intensamente in qualcosa da renderlo un feticcio; forse per questo parevano invincibili, immortali. Quando qualcuno prepara meticolosamente un piano, anche se diabolico, quando costruisce attimo dopo attimo una visione che diventa credibile, a te non resta scampo, neppure se stai difendendo la tua terra, la tua storia, il tuo futuro. Per questo i tedeschi arrivando spazzarono via la Polonia poi le nostre linee disposte per arginarli e non farli penetrare in Russia. Era un incubo sentire le ondate successive dei loro aerei solcare il cielo, la loro artiglieria pesante martellare le nostre fragili linee difensive. Era desolante la nostra debole resistenza, annichilita, abbagliata da tanta potenza e da tanta determinazione. L’Europa intera aveva perso prima ancora di iniziare a combattere perchè nessuno aveva creduto possibile tanta scientifica violenza, tanta determinata tensione condivisa da un popolo intero nell’inseguire una visione. Tutti avevano creduto ad un bluff, come era accaduto nella tante volte nella storia precedente e sarebbe accaduto in seguito. Ora si stava compiendo un disegno. Anche in quella radura nel folto di un bosco che sarebbe così tanto piaciuto a Tolstoj stava per compiersi un destino. La neve copriva l’erba fuori dal folto degli alberi e lì ci eravamo rintanati in 5, dopo una lunga corsa fra gli alberi. Sentivamo avanzare i soldati, il latrare dei loro cani, lo sferragliare dei cingolati. Eravamo decisi a resistere, forse anche a morire, se fosse servito. Ma eravamo solo un pugno di sbandati, affamati ed impauriti. Ci preparammo ad una resistenza nella quale infondo nessuno credeva. Ci bastò vederli uscire allo scoperto da ogni lato per alzare le mani senza sparare neppure un colpo. Come le altre nazioni dell’Europa presero anche noi senza con facilità disarmante, ma sulle ali di una folle visione che li rendeva invincibili... Alzammo le mani e chinando il capo ci incamminammo verso il buio.

Sono arrivato ad Auschwitz da 6 mesi, quando il campo aveva appena cominciato a funzionare. All’inizio a noi prigionieri di guerra russi era riservato un trattamento accettabile, quello di qualsiasi soldato catturato, duro ma degno. Eravamo costretti a lavorare per le industrie tedesche, poi con il passare del tempo i nazisti avevano cominciato ad essere più duri, violenti, i lavori più massacranti, il cibo più scarso e scadente. Sembrava che la nostra vita avesse perso il suo valore ed il suo scopo tanto da farci considerare alla stregua di semplici oggetti, ingranaggi di un meccanismo spaventoso. Il lavoro non era più un modo per produrre quanto un’arma per distruggerci. E’ stato allora che ho visto arrivare tanti civili, tanta gente, molti polacchi, tanti ebrei, anche tedeschi ed altri prigionieri che venivano scaricati dai treni che arrivano dai paesi più lontani e diveri; ormai nel campo si sentivano parlare decine di lingue diverse. Per tutti però valeva lo stesso trattamento a prescindere dal blocco, dal sesso, dalla provenienza. Il campo era ormai un semplice contenitore di corpi da annullare e distruggere. Ovunque erano applicati in modo maniacale e con la stessa scientificità gli stessi concetti; costrizione, oppressione , controllo. La speranza quindi ha cominciato a lasciare il posto al terrore ed alla rassegnazione di finire qui i nostri giorni. Intanto fa sempre più freddo, comincia a nevicare più spesso e noi abbiamo la solita divisa logora a righe e poco, pochissimo cibo… Credo che non vedrò arrivare la primavera, la stagione più dolce nella mia terra, quando tutto rinasce e tutto pare possibile, persino i miracoli. Ancora non lo so con certezza, ma lo sento; morirò prima che arrivi la primavera , prima che arrivi la speranza. Sarà una polmonite a mettere fine alla mia esistenza qui, in questa vita. Troverà un corpo minato, logoro ed arreso, a braccia alzate come noi in quella radura tempo prima. 

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