Ecce homo.

Mi chiamo Ozvan Rudek , 40 anni carpentiere polacco Credevo di avere vissuto tutto l’orrore possibile per un essere umano. Credevo che vedere la mia famiglia sterminata davanti ai miei occhi, senza poter fare nulla, significasse sprofondare in una insostenibile disperazione. Invece mi sbagliavo, non avevo ancora toccato il fondo dell’abisso. Entrando a Birkenau quelle profondità buie, nere come la pece, sono diventate un mondo sotterraneo e brutale dove perdermi. I miei polmoni si sono riempiti di quel liquido nero, vischioso, capace di togliere il respiro, di annullare la speranza cancellando la volontà. Sono entrato nel campo da partigiano polacco, la mia famiglia fucilata davanti a me per rappresaglia nel rastrellamento del mio villaggio a 30 chilometri da Cracovia. A Birkenau il campo sembrava già un’enorme silenzioso alveare di centinaia di migliaia di morti viventi. Mi colpì appena arrivato la quantità immensa di esseri umani che contrastava col silenzio surreale che regnava su quell’immensa spianata di baracche. Agli spettri non era concesso alcun decoro, alcuna pietà, neppure la possibilità di parlare; il silenzio era sia il risultato uno stato di necessità imposto da regole rigidissime che l’unica strada per risparmiare qualche energia, oltre l’evitare la dolorosa presa di coscienza di avere perso la voglia di comunicare, una delle poche caratteristiche che rendono l’umano speciale. Il cibo come le condizioni di coesistenza era se possibile più scadenti di quelli riservati agli animali. Ricordo che mi colpirono con un brivido di disgusto e mortificazione le lunghe file di persone costrette ad espletare i propri bisogni corporali in ambienti comuni, ad orari fissi, senza neppure disporre di un solo attimo di riservatezza, quasi a ricordarci costantemente che non eravamo esseri umani ma solo ombre pronte a diventare fumo evanescente. I sottocampi erano rigidamente divisi e non si poteva nè comunicare nè spostarsi fra le diverse aree, se non per andare ai lavori forzati oppure alle camere a gas. Ovunque c’era filo spinato elettrificato a dividere e contenere gli spazi ed a fornire l’unica via d'uscita per far cessare i tanti supplizi, la fame, le torture, le violenze, le malattie. L’ufficiale delle SS che comandava il mio settore ci accolse, stando sotto una tettoia di legno mentre la neve vorticava su di noi appena scesi dai carri. Con me c’erano famiglie intere di ebrei, gruppi di soldati nella maggior parte dei casi russi e famiglie Rom, partigiani polacchi e di altri paesi, preti, insegnanti, omosessuali, tutti mischiati insieme appena scesi da diversi treni arrivati direttamente all’interno del campo. Ci osservava con indifferenza, quasi neppure ci vedesse neppure. Pronunciò poche parole come a voler sbrigare una banale formalità. Disse che l’unico modo di uscire da Birkenau per propria scelta era quello di buttarsi sul filo spinato percorso dall’alta tensione; nella lingua del campo, si premurò di dirci, i reclusi dicevano...“andare al filo”. Sono un patriota, un combattente polacco, la mia vita non valeva più nulla lì, così dopo 6 mesi sono andato anch’io “al filo”, la mattina del 22 dicembre 1942. Che paradosso questa nostra vita; per trovare giustizia in terra si deve morire, per essere liberi, per finire la vita degnamente, da uomini liberi e sperare di ritrovare altrove la propria famiglia, la propria pace.