Ecce homo.
Mi chiamo Ruth Hesselman, 12 anni ebrea tedesca.

Sono arrivata a Birkenau uscendo dal buio. Ricordo solo il rumore assordante del treno su cui viaggiai per giorni ed un buio orribile. Quello stesso buio però ha anche avuto pietà di me, nascondendomi in quell’oceano di nulla lo sguardo perso nel vuoto di Ashtrid, la mia amica del cuore. Eravamo nello stesso vagone, stipate una sull’altra dalla calca di corpi. Per un pò ci siamo tenute per mano per resistere al terrore che ci serrava la gola, poi nel buio l’ho persa, l’ho sentita scivolare via, inghiottita da quel buio un pò orribile, un pò misericordioso. Quando arrivai al campo il portello fu aperto ed entrò violentissima e prepotente la luce del sole. Un cielo azzurro e terso, senza l’ombra di una nuvola si stagliava attraverso la porta e pensai che forse l’orrore era finito. Scesi aiutata da mia madre e la prima cosa che ricordo di avere visto erano dei piccoli fiori gialli che punteggiavano una breve riva ai bordi dei binari. Ma alzando lo sguardo da quello che era in realtà solo un misero fosso, a qualche metro di distanza vidi tutto quel filo spinato e calò di nuovo un’ombra gelida su di me a spezzare il mio respiro. Oltre il filo spinato scorgevo una strada fangosa che spariva fra due file di baracche in mal arnese. Il nonno era sceso a fatica dal carro e mi teneva una mano sulla spalla, forse per rassicurarmi, forse per reggersi. Mi era sempre sembrato forte come una grande quercia, pronto a proteggermi dalle intemperie della vita, ma ora mi pareva così fragile davanti a quegli uomini in grigio e nero col fucile e l’elmetto che urlavano ordini ruvidi e pieni di livore e spregio. Ci spinsero in fila, uno dietro l’altro; io ero fra mia madre ed il nonno che si erano disposti quasi in un disperato tentativo di proteggermi. Lentamente così, un passo dopo l’altro, avanzammo; ai lati i soldati col fucile coprivano il verde del fosso mentre io mi sporgevo per vedere ancora qualche piccolo fiore giallo che mi aiutasse ad arginare la paura. Arrivammo così in cima alla fila davanti a tre uomini col cappotto di pelle; uno aveva in mano un bastone ed indicava, dopo aver squadrato la persona che avanzava verso di lui, la destra o la sinistra. La mamma a destra...io a destra…facendo un passo mi girai istintivamente verso il nonno e contemporaneamente vidi il bastone dell’ufficiale puntare a sinistra… Lanciai uno sguardo verso di lui che con la mano mi faceva un gesto come per dire “ tranquilla, ci vediamo dopo…”. Sorrise anche se i tratti del suo viso erano induriti dallo fatica e dalla tensione. Fu l’ultima volta che il nonno mi sorrise, l’ultima volta che lo vidi. Andando a sinistra, verso quella fila di betulle, sparì per sempre inghiottito dal nulla. Non sapevo, come tutti gli altri, che là in fondo c’erano le camere a gas; l’avessi saputo l’avrei salutato in silenzio, con un gesto della mano, o forse mi sarei aggrappata a lui per tenerlo ancora un pò con me... Dopo un mese mi ammalai; nel campo i bambini erano i più indifesi e cagionevoli. Se ci era concesso un minuto di svago era nel fango infettato dai liquami. Morii dopo due mesi da quella mattina, tenendo in mano un piccolo fiore giallo che mia madre era uscita a prendere rimediando un colpo di calcio del fucile da un soldato. A Birkenau non si poteva neppure raccogliere un fiore in primavera, neppure soddisfare l’ultimo desiderio di una ragazzina morente, quasi che un fiore fosse una speranza immeritata o una pericolosa promessa di libertà .
