Ecce homo.

Mi chiamo Hedwig Frishmann, 44 anni calzolaio ebreo tedesco. Non è vero che siamo tutti arrivati qui attraverso un viaggio della disperazione. Io no. Io credevo in ciò che mi era stato promesso, io avevo una speranza. Soprattutto agli inizi nel ‘40 ad esempio i nazisti cercavano ancora di nascondere le loro vere intenzioni, rendendo la loro strategia dell’annientamento dei nemici meno sfacciatamente evidente. Ma in realtà facevano qualcosa di ancora peggiore;vendevano illusioni. Io fui avvicinato da un funzionario in borghese durante un controllo dei documenti a Budapest, fuori della grande sinagoga il giorno della preghiera. Mi accompagnarono in un ufficio dove mi proposero di fare parte di questo nuovo progetto di Hitler di spostare artigiani in aree del grande Reich da valorizzare. Le cose non andavano in modo rassicurante per noi ebrei quindi decisi di ascoltare e di cercare di trovare un modo per collaborare coi nazisti, per me e soprattutto per la mia famiglia. Mi proposero di spostarmi in una città della polonia dove a loro dire erano state aperte delle fattorie modello abitate da ebrei provenienti da tutta Europa. Mi proponevano una piccola casa, lavoro assicurato ed un piccolo appezzamento di terreno per coltivare ortaggi ed allevare animali da cortile. Mi sarei dovuto trasferire con la mia famiglia e convincere anche i miei genitori e quelli di mia moglie. Mi procurarono persino un regolare contratto di vendita che sottoscrissi pagando una cifra modesta e conveniente.

Preparammo così le valigie, raccogliendo le nostre cose, il minimo indispensabile per viaggiare più facilmente ma ciò che sarebbe servito per ricominciare una nuova vita. Con quel pezzo di carta, le nostre valigie le nostre tre famiglie partirono alla volta di Auschwitz dove arrivammo all’inizio del ‘41, in pieno inverno. Scesi dal treno ci portarono al campo dove fummo divisi e destinati al blocco in attesa di essere trasportati alla nostra destinazione finale. Non uscimmo mai in realtà da Auschwitz. Lavorammo per sei mesi in vari stabilimenti che stavano attorno al campo e cominciammo a morire in estate, mentre ogni giorno cercavo di parlare col capo del campo portando con me ogni volta il mio patetico contratto di acquisto. L’ultima volta fui preso a colpi di calcio di mitra e riportato incosciente nella mia camerata. Ricordo che pensai, riaprendo gli occhi dolorante sul mio pagliericcio, che era stata una terribile ingenuità quella di avere avuto speranza, di essermi fidato dei nazisti. Avevo richiuso un sogno in quella valigia di cartone che ora sta dietro un vetro del memoriale di Auschwitz con su scritto il mio nome, Hedwig Frishmann.
