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Ecce homo.

Mi chiamo Lazlo Krevitze, 31 anni fotografo polacco. Wilhelm Brasse mi guardò negli occhi e mi disse “Lazlo, vuoi provare a vivere o vuoi lasciarti morire ? “ Ero giovane, attaccato inconsciamente alla vita e di quell’inferno capivo poco o nulla. Ad Auschwitz ci ero finito dopo essere stato arrestato durante una manifestazione per avere cibo. Può sembrare strano ma nel ‘39 in Polonia si pativa la fame ancora più di prima, da quando i nazisti avevano invaso il paese. Ero stato portato davanti ad una sorta di tribunale in una stanza di un blocco di Auschwitz. Un tavolo lungo e stretto, sette sedie e dietro militari della Gestapo ed un giudice tedesco.

Il “processo” era durato meno di 5 minuti, giusto il tempo di leggere i capi di imputazione. Nessun difensore, nessun contraddittorio, l’unica domanda alla quale fui chiamato a rispondere, la conferma delle mie generalità. Non lo sapevo allora ma rischiai di finire direttamente al muro che stava fuori nel cortile dietro la finestra.

Lo vidi qualche mese dopo. Ma fui fortunato, quel giorno il tribunale avrebbe mandato al muro altri e mi comminarono una “semplice” condanna a 3 anni di lavori forzati. Tre anni ad Auschwitz equivalevano, appunto come disse Brasse, ad una condanna a morte lenta e dolorosa. Conoscevo Wilhelm di vista, abitavamo nello stesso quartiere. Sapevo che era un fotografo perchè avevo anch’io la stessa passione che esercitavo prima dell’arrivo dei tedeschi nel poco tempo libero dal mio lavoro. Mi cercò lui e mi rivolse quella domanda a bruciapelo, mentre facevamo la fila per il misero pasto di mezzogiorno. Non era un collaborazionista, anzi, era un uomo che non si era mai piegato a prestare giuramento di fedeltà ad Hitler e per questo lo ammiravo. Era di origini austriache, e questo status imponeva ai nazisti di trattarlo con qualche privilegio, quello di non liquidarlo subito ad esempio. Gli avevano riservato la possibilità di poter diventare uno di loro, possibilità che lui, da uomo con la schiena dritta, aveva ripetutamente rifiutato anche dopo essere stato interrogato dalla Gestapo, insospettita dalla sua ostinata resistenza. Tempo dopo, mentre sviluppavamo insieme i rullini nella minuscola camera oscura che Rudolf Höß, il capo del campo, gli aveva messo a disposizione, mi raccontò di come aveva tentato la fuga in Francia ormai alle strette e di come una volta catturato fosse stato rinchiuso definitivamente da nemico nel campo. Lo aveva salvato dalla morte per stenti la sua capacità di fotografo. I tedeschi erano strana gente; avevano la mania dell’organizzazione e del controllo, quindi avevano messo in piedi un servizio di censimento fotografico dei reclusi.

Tutti erano fotografati in tre profili, destro, sinistro e frontale e le foto rigorosamente archiviate. Quasi tutti i reclusi fotografati morivano nel giro di pochi mesi, di malattia, stenti o passando nelle camere a gas. Il perchè di quel servizio di raccolta di fotografie non lo capii mai, ma ci salvò la vita. Noi fotografavamo continuamente , incessantemente decine di migliaia di persone, donne, uomini, ragazzi, vecchi, bambini. Tutti passavano davanti a noi con quello stesso sguardo vuoto, sembravano pupazzi svuotati di ogni barlume di vita e di speranza. Sapevamo che sarebbero morti di lì a poco e questo rendeva il nostro lavoro ancora più orribile, al limite della sopportazione, al limite della follia. Non potevamo fare nulla per loro se non rendere quei pochi minuti meno degradanti, soprattutto per le donne ed i bambini. Ricordo come fosse ora, la cura con cui qualche giovane donna cercava di sistemare il viso segnato dalle privazioni, retaggio di un passato di normalità lontano da quell’orrore. Era terribile vederle aggrapparsi a quei gesti meccanici privi ora di senso ma noi cercavamo nei limiti del possibile di lasciarle fare, sottraendole alla brutalità dei soldati che premevano perchè le operazioni procedessero speditamente. Ed i bambini erano la parte più tremenda del nostro lavoro. Spesso non riuscivo a guardare i loro occhi pieni di stupore e terrore attraverso il mirino della macchina fotografica. Scattammo non ricordo neppure quante forografie, scattavamo a ritmo incessante spesso per tenere il passo delle camere a gas, scattavamo per sopravvivere, ma quegli occhi sono rimasti dentro di me ed ogni notte mi fanno visita ancora oggi, in un angosciante processione di incubi. I nazisti all’avvicinarsi del fronte intimarono a Brasse di distruggere tutto, ma lui, con quella testarda incapacità di adeguarsi, disubbidì nascondendo tutti i negativi che poteva nei dormitori per poi farli avere alla resistenza ed ai russi. Io e lui fummo trasferiti a Mauthausen e lì liberati dall’arrivo degli alleati. “Vuoi provare a vivere o vuoi lasciarti morire ? “ mi aveva chiesto anni prima. Avevo risposto che avrei provato a vivere ma la morte me la sono portata dentro attraverso quegli scatti, da allora sino ad oggi e certo per sempre. La fotografia, il ritratto, sono un dialogo silenzioso di occhi. Quelle centinaia di migliaia di occhi e di silenzi ritornano ogni giorno ed ogni notte e mi parlano, incessantemente. Nè io nè Wilhelm da quel giorno abbiamo più usato la macchina fotografica. La teniamo lì, ancora , semplicemente per non smettere di ricordare.

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