Ecce homo.

Alessandra era bellissima quella mattina. Pettinata, vestita con l’abitino migliore, quello che aveva indossato quando era nata la sorellina. Non era domenica ma il padre e la madre avevano fatto progetti per quella settimana e lei sapeva che finalmente avrebbe passato qualche giorno con loro e soprattutto, rivisto i fuochi artificiali: la sua grande passione ! Il loro fragore assordante la spaventava ma Alessandra era sempre stata così affascinata dalla bellezza di quelle luci colorate che esplodevano in cielo da non vedere l’ora di alzare di nuovo il naso all’insù per riempirsene gli occhi. Erano saliti in auto il giorno prima e scherzando, ridendo e sonnecchiando erano arrivati al bell’albergo sul lungomare che li avrebbe ospitati per quella breve vacanza tanto attesa. Nizza era bellissima quella mattina di luglio. Non era così caldo come i giorni precedenti. Una inaspettata ventata di aria fresca, aveva spazzato via la calura del sole estivo. Il 14 la Francia si preparava alla sua grande festa e la piccola Alessandra da tanto tempo cullava il sogno di passare là il suo compleanno nel pieno di una vera, grande festa. Era nata il 14 luglio di 12 anni prima e non era solo una banale coincidenza. Anche se il padre da qualche tempo aveva perso il lavoro la famiglia aveva deciso che era tempo di regalare ad Alessandra quel sogno a lungo inseguito. Avevano fatto un sacrificio ed erano partiti comunque, anche con quel velo di sottile malinconia che aleggia nell’aria di casa quando le cose non vanno come vorresti ed il futuro è un’incognita, più che mai. Ma quel giorno lui era felice e sorrideva, tutti sorridevano, contenti della felicità dell’altro. Erano una normale, bella, famiglia in un giorno felice. La sera era arrivata con la sua brezza fresca e dolcissima, con quella luce languida che pennella la linea sottile dove le onde incontrano la spiaggia. Si erano preparati per uscire dopo cena ed ora stavano camminando sul lungomare ormai immerso nell’oscurità rischiarato dalle mille luci colorate dei negozi e dei ristoranti a festa. Non potevano vedere tutte quelle ombre che stavano arrivando dal mare, decine, centinaia, tutte vestite con quelle orribili divise a righe usate ad Auschwitz, tutte desolatamente abbondanti a contenere corpi scheletrici. Avanzavano nel buio della spiaggia sino al muro basso che la divideva dal viale. Si fermavano lì, silenziose come solo un’ombra sà essere, fissando i passanti che sciamavano chiassosi, pronti per lo spettacolo e la festa. Né Alessandra e neppure la sua famiglia potevano vederle e non potevano vedere neppure il ragazzo che un paio di chilometri più in là stava salendo sul grande camion bianco. Che strano il destino. In quell’attimo preciso tutti apparivano invisibili gli uni agli altri, mentre di lì a poco seguendo un orribile copione intessuti con la trama del destino, tutti si sarebbero ricongiunti nella stessa dimensione fatta di spazio e tempo. Il ragazzo mise in moto, prese un respiro e per la gloria di un qualche Dio ingranò la marcia. Alessandra sentendo il primo scoppio si tappò le orecchie ed alzò gli occhi al cielo già illuminato di meraviglia e di luci colorate. Le ombre dalle divise rigate alzarono le mani agitandosi, spalancarono le bocche mute in un grido silenzioso, misto di terrore ed allarme. Il ragazzo sospeso fra ira e paura imboccò il viale pieno di gente, pensò al suo disperato rancore di escluso, ai soldi che sarebbero di lì a breve arrivati su di un conto fantasma quindi alla sua famiglia e schiacciò con brutale determinazione l’acceleratore. Ognuno vedeva solo ciò che voleva vedere, solo il coro tragico di ombre fungeva da spettatore cosciente, impotente e dolente. Nessuno vide altro che il buio di lì a breve quando le urla di terrore e gli spari tacquero. Alessandra ora giaceva riversa come una bambola di pezza, forse con gli occhi spalancati verso il cielo come avrebbe voluto Piccola Alce; entrambe loro sarebbero quindi stata la numero187 e la numero188, forse, accolte con abbracci e carezze dagli altri bambini di Beslan che le facevano ala mentre se ne volava via, mentre il ragazzo senza nome che stava accasciato sul sedile del camion crivellato di colpi lanciava un ultimo timido sorriso verso Yusuf che lo chiamava per dare due calci al pallone. Chisulo era finalmente libero dal terrore del machete; il ragazzo con la maglia rosso sangue e lo stemma della squadra inglese aveva fatto un ottimo lavoro, un colpo solo, secco e via, solo qualche macchia di sangue sulla maglia. Edwig raccoglieva le povere cose lasciate dai morti abbandonati sul selciato del lungo mare, compresi i documenti del ragazzo sul camion, un fazzoletto che una ragazza ombra di Auschwitz aveva perso sulla spiaggia e gli occhiali di Nha Hoa, il fiore giallo raccolto dalla madre di Ruth e qualche benda di Routh, l’infermiera . Stanizlao ed Edna si sarebbero presi per mano allontanandosi finalmente liberi e felici verso l’alba sussurrandosi dolci parole e baciandosi teneramente, godendosi finalmente quella storia d’amore che la vita gli aveva negato. Lazlo e Wilhelm avrebbero scattato eccezionalmente l’ultimo grottesca fotografia sulla scena della strage, perché il mondo è un palcoscenico dove ognuno di noi è chiamato suo malgrado a recitare una parte. Potrà piacerci o meno ma la storia ci darà sempre una opportunità di fermare la recita e riscrivere una parte del copione togliendo per quello che ci compete un po' di ingiustizia e cancellando un po' di dolore. Purtroppo però lascerà a noi umani la parte più difficile; essere un campo di battaglia dove si fronteggiano il bene ed il male. Bruno prenderà le foto di Lazlo e Wilhelm , le mie e questi fogli e li recapiterà a destinazione ammesso che ci sia qualcuno ad aprirgli la porta.
Magari fosse la Fine...
