Ecce homo, epilogo.
Sono Nuri, Un ragazzino. Da quando sono capace di ricordare vivo nei campi profughi fra Libano e Siria. Da qualche mese vivo a Sabra e Shatila un insieme di case e baracche tra strade polverose o piene di fango, a seconda che piova o sia secco e caldissimo. Qui siamo tutti palestinesi, terroristi o figli di terroristi per gli israeliani, semplicemente gente che vive l’agonia di un paese che si chiama Libano, per tutti gli altri. E’ il 16 settembre, mattina presto quando sentiamo i primi spari, le urla. Io ed altri due ragazzini della mia età, compagni di giochi, ci arrampichiamo sul tetto della casupola all’angolo per vedere cosa succede, dal nostro rifugio segreto. Ci sono uomini armati che entrano nel campo, scendono dai camion e sparano su chiunque esca di casa per vedere cosa succede. Avanzano senza fretta sparando e quando sono abbastanza vicini entrano nelle case estraendo i coltelli; sentiamo le grida, disperate, colpi di mitra ed ancora urli disumani, terribili. Il tempo passa e continuano ad arrivare uomini armati delle milizie e continuano a sparare, picchiare, uccidere davanti ai nostri occhi. Sembra una scena irreale, un incubo che scorre sotto di noi che stiamo immobili bloccati dalla paura, appiattiti su quel tetto pericolante che non reggerebbe il peso di un adulto. Passano le ore e la speranza che tutto finalmente finisca si stempera in un torpore dal sapore amaro misto a rassegnazione. La paura che ci scoprano anche in quell’angolo dimenticato fa spazio alla stanchezza e stretti ed appiattiti lungo il muro ci addormentiamo sotto il sole rovente. Incubi e realtà si rincorrono senza che ci accorgiamo della differenza. Dopo due giorni di urla, spari, sangue e morte, guardando giù vediamo solo montagne di cadaveri. Amici, parenti vicini, donne, madri, bambini, tutti abbandonati come grotteschi pupazzi ovunque. Ad un certo punto vediamo un buldozzer entrare e cominciare a spingere i cadaveri verso grandi fosse scavate verso il confine del campo. Poi, dopo averne stipati più possibile, spinge su quell'ammasso di corpi un velo di terra dal quale spuntano ancora braccia, teste e gambe squarciate. La mattina del 18 quando fa alba e ci svegliamo uno addosso all’altro nel tentativo istintivo di proteggerci dal fresco della notte, sentiamo un silenzio angosciante. L’unico rumore che sentiamo è il ronzio orribile di nuvole gigantesche di mosche che ricoprono morti e noi, incredibilmente vivi. Ci sporgiamo e vediamo sotto ovunque per strada solo corpi e sangue. Il sole lentamente si alza e noi stiamo lì inebetiti, incapaci di muoverci. Abbiamo fatto i nostri bisogni in quel metro quadrato di tetto ancora intero per non farci scoprire.L’odore che sale dalla strada è terribile ma non abbiamo il coraggio di scendere. Sembriamo fantocci, morti come quelli giù in strada, ma noi, sia pure a fatica, respiriamo ancora. Improvvisamente, ora che il sole è già alto, vedo un bagliore che pare un fulmine. E’ il riflesso di un canocchiale. Viene dalle torrette di guardia dei soldati israeliani, che stanno tutto intorno al campo. Erano lì da sempre ma ce ne eravamo dimenticati in tutto quell’orribile incubo. I soldati scrutavano quello che restava del campo. Ripensando ai due giorni passati ricordo che altre volte avevamo avvertito quei lampi negli occhi ma non avevamo capito, nella nostra ingenuità, cosa significassero. I soldati israeliani erano stati tutto il tempo lassù fermi a guardare ciò che accadeva nel campo. I miliziani, mi aveva detto mio fratello, erano loro alleati e nonostante fossero rimasti a Sabra e Shatila solo donne, ragazzi e vecchi oltre a bambini, nonostante i guerriglieri fossero usciti dai campi la settimana prima, loro, i soldati israeliani erano rimasti a guardare ciò che accadeva, forse a controllare che il lavoro di pulizia del campo fatto dai loro alleati, fosse stato completato. Ora vediamo tre persone venire avanti sulla strada, lentamente, timorosi, si fermano, guardano, si scambiano poche parole, uno impreca, ogni tanto vomitano in ginocchio, poi si rialzano e vengono avanti. Vedo che uno di loro ha un cartellino appeso al collo con su scritto “PRESS”, lo riconosco è un giornalista che ci aveva intervistati qualche settimana prima. Mi alzo, provo ad urlare, ma non esce nulla dalla bocca e le mosche ci si infilano subito dentro. Sputo e vomito saliva, dallo stomaco non poteva uscire altro dopo due giorni senza cibo. Allora agito le braccia finchè non mi vedono e lentamente vengono verso di noi. Scendiamo facendoci scivolare lungo i travi divelti fino a quella che era stata la cucina della casupola e li ci incontriamo. Le facce sconvolte, siamo incapaci di parlare. Uno di loro dopo un lungo silenzio mi dice con un filo di voce “ Mi chiamo Robert **, sono un giornalista , non avere paura di noi…” Io in verità non avevo paura, semplicemente non capivo perchè tanta violenza su gente disarmata, donne violentate, vecchi ai quali era stato aperto il cranio con un colpo, bambini dal ventre squarciato da un coltello lasciati in pasto alle mosche. Lui tornerà a casa raccontando di un massacro per il quale non ci sono parole possibili. Io sarò, come i pochi ragazzini sopravvissuti ad un genocidio, condannato a vivere una vita intera con quelle scene, quei corpi negli occhi, rivedendoli ogni notte negli incubi. Costretto nello stesso tempo ad odiare e ricordareare, senza altra soluzione. Per fortuna essendo un ragazzino palestinese, non sono andato a scuola che qualche mese. Non ho potuto studiare la storia e sapere che quei ragazzi che stavano sulle torrette e sui carri armati attorno al campo erano i nipoti degli uomini e delle donne che avevano sofferto le atrocità di luoghi altrettanto terribili chiamati Auschwitz e Birkenau. Se lo avessi saputo non mi sarei spiegato perché chi ha provato tanto dolore sia stato capace di infliggerne altrettanto, senza cercare una strada meno facile di quella della violenza. Troppe domande, poche risposte, per gente come noi dal destino segnato, un destino così simile da sembrare comune pur stando sui due lati opposti di un muro che qualcuno farà sempre costruire per dividere e continuare a comandare. ** Robert Fisk , giornalista britannico corrispondente dell’Indipendent, per decenni inviato di guerra nei paesi mediorientali, uno dei primi ad entrare a Sabra e Shatila nel 1989, dove le milizie libanesi cristiane, con l’appoggio dei soldati israeliani, uccisero fra i 2000 ed i 3000 civili palestinesi fra il 16 ed il 18 settembre.

Una camera a gas di Auschwitz.

La forca mobile, usata ad Auschwitz per le esecuzioni davanti alle celle dei reclusi in punizione.