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Studiare, ascoltare...

Ma Salgado è costretto a pagare a caro prezzo il suo amore verso i più deboli. Agli inizi del duemila, infatti, i suoi occhi avevano ormai visto troppa sofferenza. “In Ruanda vidi la brutalità totale.Vidi persone morire a migliaia ogni giorno e persi la fiducia nella nostra specie. Non credevo che fosse più possibile per noi vivere. Fu a quel punto che mi ammalai”. E si ammala a tal punto che i medici gli consigliano di abbandonare la fotografia. “Quando ho iniziato a fotografare, i colori erano molto saturi. C’era il rischio che prendessero il sopravvento sui soggetti che volevo mostrare, sulla dignità delle persone, sui sentimenti, sulla storia. La bellezza dei colori rischiava di cancellare tutto il resto”.

Salgado interpreta la presenza del colore, nelle foto, come un elemento di disturbo. “Nelle fotografie a colori c’è già tutto. Una foto in bianco e nero invece è come un’illustrazione parziale della realtà. Chi la guarda, deve ricostruirla attraverso la propria memoria che è sempre a colori, assimilandola a poco a poco. C’è quindi un’interazione molto forte tra l’immagine e chi la guarda. La foto in bianco e nero può essere interiorizzata molto di più di una foto a colori, che è un prodotto praticamente finito”.

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